Tempi bui, i nostri. L’umanità – intesa come valore, complesso di qualità, prima che come moltitudine di uomini e donne – soffre una crisi drammatica, connotata dalla prevalenza – che si fa prevaricazione – del forte sul debole, del cittadino sullo straniero, sullo sconosciuto, che diventa subito estraneo, e subito dopo nemico, da aiutare, magari, a casa sua, dove però regnano miseria e violenza.
Ed è fondamentale che l’arte – e nella specie, la musica – si faccia carico di questa crisi, di questa umanità malata, di questa sofferenza. È indispensabile che, chi può, lanci il proprio allarme, il proprio grido di dolore, nel tentativo di richiamare chi è in grado di ascoltarlo – si, ma poi chi è davvero in grado di ascoltare? Non certo chi strepita sui social, ben protetto da uno schermo, o chi chiede – e ottiene – consenso (e voti) esaltando valori disfunzionali di esclusione.
Emiliano D’Auria, pianista e compositore ascolano e cosmopolita, nel suo ultimo bellissimo, struggente album, The Baggage Room, affronta con coraggio e forza uno degli aspetti più emblematici di questa dis-umanizzazione, quello dell’emigrazione.
L’album è stato registrato a New York, al Bunker Studio di Brooklyn (uno dei quartieri della città nel quale si sviluppò la comunità italiana).
Il lavoro è dedicato, in particolare, alla seconda ondata migratoria verso gli Stati Uniti di fine Ottocento (ce lo dice il titolo della seconda traccia: 1891: Ellis Island) e quindi anche a quella italiana, ma questo è solo il punto di partenza del viaggio che l’artista compie, accompagnando i suoi emigranti di allora – ma anche tutti quelli che sarebbero venuti in seguito –, che lasciarono i loro Paesi, le loro famiglie – che forse un giorno li avrebbero raggiunti –, per cercare una futuro migliore.
Il viaggio si apre con la traccia che dà il titolo all’album, nella quale un pianoforte preciso e rigoroso detta, insieme alla sezione ritmica, il ritmo complesso che poi si risolve nelle trame, dapprima dure e poi melodiche di tromba e sax. Attraverso il dipanarsi dei temi sonori, vediamo chiaramente lo stanzone dove gli stranieri ammassavano i loro bagagli, che è il luogo della speranza, del passaggio, dove le valigie sono il simbolo del viaggio, del distacco, dell’arrivo.
E il percorso dei migranti, che sono già diventati i nostri migranti, prosegue con la già citata 1891: “Ellis Island”, introdotta da un solo di batteria, subito dopo (in)seguita da contrabbasso e pianoforte, in un ritmo incalzante e ansiogeno, sul quale si inseriscono poi le trame dei fiati, che procedono all’unisono per poi separarsi e seguire le proprie strade tortuose, che portano verso il medioriente e poi verso il Mediterraneo.
In “Temporaily Detained” si avvertono l’ansia e la speranza di chi è bloccato, seppur momentaneamente, in attesa di essere valutato, sopraffatto da pensieri la cui preoccupazione è resa alla perfezione dalle fughe della tromba di Philip Dizack, sostenuta dal piano dell’Autore, spesso sullo sfondo eppure parte costitutiva di tutte l’opera.
Superato il primo ostacolo, ecco che ora la trama respira con “Searching For The New World”, dove la melodia del pianoforte di D’Auria, in possesso di una tecnica perfetta, offre conforto e speranza a chi ascolta. Speranza che subisce una battuta d’arresto nella successiva “The Eye Man”, dove il contrabbasso di Rick Rosato introduce il tema, sostenuto dai fiati, della preoccupazione di coloro che dovranno sottoporsi alle visite mediche per essere accettati. E qui, la tromba di Dizack e il sax di Dayna Stephens disegnano una delle melodie più belle e struggenti dell’intero album, sorretta sempre dal pianoforte, che a sua volta si inserisce nella meravigliosa trama, e dai discreti ma essenziali interventi sui piatti di Kweku Sumbry.
In “The Story of Sacco and Vanzetti”, l’Autore, muovendo dalla nota vicenda che portò alla ingiusta condanna a morte dei due anarchici italiani per una rapina mai commessa, affronta, con linguaggio malinconico e complesso, il gigantesco tema dell’ingiustizia, nella traccia che libera l’istinto di Stephens, nel quale si percepiscono echi bepop, e la vena più melodica di Dizack.
Con “The Long Wait”, il pianoforte dell’Autore traccia una melodia struggente, bellissima, sognante, accompagnata in modo essenziale dalla sezione ritmica, dalla quale emerge poi con discrezione un assolo perfetto di Rosato, seguito a ruota dal sax.
“Human Connections” torna a un linguaggio più complesso, sul quale si apre poi una melodia intensa, introdotta dall’arpeggio del pianoforte e poi sviluppata dai fiati. Anche qui, al titolo del pezzo corrisponde la sostanza della musica, che passa da un registro di urgenza a un senso di pace, per poi tornare alla (quasi) frenesia della complessità delle relazioni umane.
L’album si chiude con “Third Class”, dove i migranti ammassati negli spazi angusti dedicati ai poveri sulle grandi navi che solcavano l’Atlantico sono descritti con temi e ritmi ancora una volta complessi, che si muovono fra urgenze ritmiche e aperture melodiche, che di muovo evocano sonorità mediorientali, che si intersecano con frequenze dispari e disorientanti.
The Baggage Room è un album bellissimo, intenso, suonato in modo impeccabile ed emotivamente toccante. Non è certamente un lavoro ”facile”, perché le trame sonore e ritmiche sono talvolta complesse (ma la drammaticità non è mai di semplice lettura), e richiede, in talune tracce, più di un ascolto. Ma al termine del viaggio, ciò che resta, per chi ha avuto la pazienza di ascoltare – e riascoltare, vero lenimento per l’anima –, è una commozione intensa, ma anche la rabbia per ciò che accadeva e continua ad accadere.
Su tutto, il super potere della musica, di qualità eccelsa, che tutto legge, esplora, descrive e infine decodifica e disvela
Articolo del
13/02/2025 -
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