Quattro anni dopo “As The Love Continues”, pensavamo bastasse, e invece no, anche i Mogwai continuano, non solo l’amore, malgrado drammi famigliari e momenti di sofferenza, loro ce l’hanno fatta. Eccolo il nuovo album, “The Bad Fire”, che poi sarebbe l’Inferno, quello della loro vita negli ultimi anni, ma la musica poi li ha riuniti, ancora una volta.
Un album che è stato registrato in pochi giorni, un disco che restituisce quella pace perduta, una “live session” in studio che costituisce la cura. Eccellente poi la produzione di John Congleton (già con St Vincent, Sigur Ros, Angel Olsen e con gli Explosions In The Sky) su un album che mantiene la stessa linea compositiva, quella di sempre, di stampo cinematico, ma aggiunge al “post rock” tipico della band, dei nuovi elementi, come l’elettronica , come lo “shoe gaze” e presenta delle incursioni nel jazz, nel “kraut rock” e anche nella forma canzone.
Un lavoro maturo, più consapevole, questo undicesimo disco dei Mogwai, di questi ragazzi scozzesi che hanno smesso di essere tali, ma che ancora conoscono l’arte del sogno e hanno il dono dell’incanto: “Pale Vegan Hip Pain”, “If You Find This World Bad, You Should See Some Of The Others”, “18 Volcanoes”, composizioni pervase da un minimalismo elettrico che si infila nei meandri più nascosti dell’anima, e poi il canto, quella voce soffusa che scalda il cuore, che soffia su ogni ferita e allevia qualsiasi dolore.
Sonorità intense e avvolgenti, richiami al “progressive rock”, come su “Hammer Room”, per esempio, dove intrecci di chitarre elettriche si rincorrono, innestati come sono su un tappeto di elettronica, per poi esplodere, per poi deflagrare in alto, verso un Cielo freddo e distante, quello ritratto sulla bellissima copertina dell’album. Guardatela mentre ascoltate il disco, mentre fate il vostro “upgrade” verso l’eterno.
“God Gets You Back”, il primo singolo, è un crescendo elettrico di grande maestria, un pezzo molto ben strutturato e intelligente, mentre sono i sintetizzatori a dare corpo a una bellissima “Fanzine Made Of Flesh”. Su “Lion Rumpus” delle percussioni nervose cedono pian piano il posto alle chitarre che finiscono con l’aprire la strada verso un mondo diverso, di una spiritualità nuova, fatta di una morbidezza elettrica, melodica e sognante.
Un album in cui immergersi completamente per poi tuffarsi al suo interno di nuovo, senza fermarsi mai.
Articolo del
18/02/2025 -
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